Recensione di Maria Ciotti in “Proposte e ricerche”, 55, 2005, p. 436-439

 

Con il volume dedicato al Tartanon pesarese, Maria Lucia De Nicolò riprende e approfondisce gli studi di un’area già indagata in ricerche precedenti: quella adriatica e, nello specifico, la marineria pesarese e i suoi rapporti interadriatici. L’imbarcazione che dà il titolo al libro risulta essere a fine Settecento il tipo di naviglio più diffuso della costa adriatica pontificia. Le fonti utilizzate dall’Autrice infatti, fanno riscontrare la preponderanza di tartanoni tra i mercantili pontifici giunti nei maggiori porti dell’alto Adriatico, rispetto ad altre tipologie navali in uso. A Fiume ad esempio, per l’anno 1760, su un totale di 92 legni entrati in porto battenti bandiera pontificia, 53 sono tartanoni. Analogamente a Trieste, su un totale di 158 imbarcazioni dello Stato della Chiesa, giunte in porto nel 1775, 89 risultano tartanoni, mentre la stessa flotta mercantile veneziana, censita nel 1794, tra i tipi navali comparabili al tartanone, contava solo tartane, tartanelle e trabaccoli. La preponderanza di questo tipo di imbarcazione nelle flottiglie delle marineria della costa adriatica pontificia si riscontra anche nelle fonti iconografiche. In una rara raccolta di disegni acquerellati, realizzati nel 1801 e conservati presso la Biblioteca Querini Stampalia di Venezia, si trovano raffigurati 21 “bastimenti grossi”, che frequentavano la laguna veneta: tra questi è anche il tartanone, indicato però come “tartanon pesarese”, ovvero come il veliero proprio della marineria di Pesaro che ne contava il maggior numero. Tuttavia, il titolo del libro, come puntualizza l’Autrice nell’introduzione, più che denotare uno specifico interesse di studio per questo tipo di imbarcazione, assunto ad attore principale dei temi e delle vicende trattate, si presta in realtà solo come richiamo, con la metafora del “tartanon pesarese”, all’anima marittima della città, seguendone la formazione, gli sviluppi e l’evoluzione dal basso medioevo ai secoli dell’età moderna. Il volume è diviso in due parti, dedicate rispettivamente alla costruzione navale (cantieri, maestri d’ascia, calafati) e alle attività marittime (mercanti, traffici, paroni, velieri). Nella prima si prende in esame la cantieristica e il naviglio tra basso medioevo e prima età moderna, analizzando sotto l’aspetto tecnico e istituzionale il ruolo, la formazione e le competenze delle maestranze specializzate, custodi dell’ “arte di costruir barche”. Era questa un’attività di carattere specialistico, spesso intrapresa e sviluppata all’interno dell’ambito familiare da artigiani che trasferivano, da una generazione all’altra, conoscenze tecniche secolari e segreti del mestiere legati alle personali esperienze lavorative. Particolare importanza assume, in questo settore, il fenomeno della migrazione delle maestranze specializzate, che contribuì a diffondere l’arte della costruzione navale anche nei centri minori, sollecitando la creazione di scuole autoctone di carpenteria e la formazione di maestranze locali. La migrazione di costruttori navali, provenienti dai centri lagunari ma anche dalle coste dalmate, è ben documentata, già nella prima età moderna, nei porti di Rimini, Pesaro, Fano Senigallia, Ancona, ma anche nei porto di “sottovento” e lungo le coste abruzzesi. La mobilità delle maestranze più quotate, come sottolinea l’Autrice, era però fortemente osteggiata dai governi delle principali città-stato marittime (Venezia, Ragusa, Genova), interessati a custodire gelosamente le conoscenze tecniche e i segreti dell’arte. Venezia, ad esempio, che comprese presto l’importanza di garantire la continuità del sapere tecnico delle proprie maestranze, lo fissò in una serie di minuziosa di norme, promulgate fin dal 1227, che vietavano a marangoni e calafati, di uscire dai confini territoriali per cercare lavoro altrove. Il fatto poi che, nonostante i divieti, negli squeri e negli scali del medio Adriatico, come Fano, Rimini, Pesaro e Senigallia, presi in esame in questo volume, operassero maestranze di provenienza lagunare o ragusea, fa supporre, come nota l’Autrice, che in realtà vi fosse una certa tolleranza da parte delle potenze marittime, dettata dalla necessità di avere comunque sempre a disposizione, lungo i litorali adriatici, centri per la riparazione e il raddobbo del proprio naviglio, militare e mercantile. In definitiva, ciò che si scongiurava, con veti e norme coercitive, era l’esodo delle maestranze, non tanto verso gli approdi di “sottovento”, quanto verso i territori controllati da altre potenze navali. La seconda parte, centrale, del volume è invece dedicata alle attività marittime e commerciali a Pesaro fra basso medioevo ed età moderna e traccia un percorso mercantile e cantieristico che mette in luce, nel quadro della supremazia adriatica veneziana, una progressiva importanza della marineria pesarese nei traffici marittimi, soprattutto nel corso del Settecento. Il primo capitolo prende in esame le vicende di una famiglia di “mercatanti” di origini pesaresi, gli Arduini, operanti a Ragusa e a Venezia tra il XV e il XVI secolo. La documentazione rintracciata dalla De Nicolò consente però di far risalire alla fine del Trecento le prime notizie su alcuni esponenti di questa famiglia, che fanno ipotizzare, almeno per questi anni, se non la piena appartenenza degli Arduini al mondo mercantile, certamente una certa propensione per i traffici, suggerita dalla loro presenza stabile nella città lagunare. Il secondo capitolo è invece incentrato su Pesaro quale porto di transito e crocevia stradale: le indagini condotte documentano come la città ducale, già crocevia naturale per i traffici terrestri che servivano le regioni interne e il centro Italia, sin dal Cinquecento, si configuri anche quale snodo strategico delle vie di terra attraverso cui transitavano le merci e le materie prime provenienti da Firenze, da L’Aquila e da Roma, quali in particolare panni e sete fiorentine, zafferano e allume di rocca, e che da Pesaro proseguivano poi via mare verso gli scali dell’alto Adriatico e del Levante, in particolare Venezia e Ragusa. Gli stretti rapporti che la città ducale intrattiene con la Serenissima e la Repubblica di San Biagio emergono anche dall’analisi dettagliata che la De Nicolò fa del naviglio mercantile presente a Pesaro nel Cinquecento, individuandone la tipologia, la provenienza e le merci trasportate. Non a caso le tipologie di imbarcazioni rintracciate, appartenenti a pesaresi, risultano, come rileva l’Autrice, tutti tipi navali di fabbricazione estera, opera di maestranze venete o dalmate. A questi proficui interscambi, tecnici, culturali e commerciali, si deve ricondurre, in definitiva, quel processo di maturazione e crescita delle attività marittime che nel lungo periodo porterà, grazie anche all’immigrazione di maestranze chioggiotte, alla formazione di una vera e propria marineria pesarese di cui il tartanone, nel corso del Settecento, finirà per diventare l’emblema. L’ultimo capitolo è, appunto, dedicato a questa imbarcazione adatta per la pesca e per i traffici di cabotaggio, ma anche e sempre più utilizzata dalla marineria pesarese lungo le rotte adriatiche che collegavano commercialmente il porto di Pesaro con gli scali di Venezia, Trieste, Fiume, Ragusa. Il volume è corredato di una corposa appendice documentaria dove vengono riportati vari contratti di maestri d’ascia, di forniture di legname e documenti sul governo del naviglio e sugli usi marittimi, nonché da un immancabile quanto accurato apparato iconografico che distingue e aggiunge pregio ad ogni pubblicazione di Maria Lucia De Nicolò.